Ancora una volta, i Bitcoin – e le criptovalute in generale – sono al centro di una bufera. Questa volta non si tratta dell’ennesimo divieto ma di qualcosa di peggiore e di diametralmente opposto. Pare infatti, che la Corea del Nord stia accumulando grossi quantitativi della criptovaluta, in modo da aggirare le restrizioni commerciali e le nuove sanzioni imposte dall’ONU.
Stando ad un rapporto stilato da Fire Eye, un’agenzia specializzata in cybersicurezza, sembra che gli hacker del regime di Kim Jong Un siano i responsabili di una serie di attacchi a vari servizi di exchange sudcoreani. Sempre secondo il rapporto, lo scopo sarebbe quello di accumulare quanti più Bitcoin possibile: con il paese tagliato fuori da gran parte dell’economia globale, la criptovaluta sarebbe l’unico mezzo per pagare le materie prime. Le monete virtuali non sono soggette al controllo dei vari stati e, inoltre, sono facilmente convertibili sia in dollari che in altre criptovalute.
Negli ultimi cinque mesi ci sono stati molteplici attacchi ai danni dei mercati di criptovalute sudcoreani; il più feroce ha registrato un furto di 3.800 Bitcoin, pari a circa 15 milioni di dollari. Comunque, data l’enorme difficoltà nel risalire all’identità degli hacker, il coinvolgimento della Corea del Nord non è stato mai provato. Si tratta, al momento, di ipotesi; altamente plausibili, ma pur sempre ipotesi.
Pare poi che Fire Eye abbia trovato dei collegamenti tra la Corea del Nord e WannaCry, il cyber attacco di maggio che ha colpito in circa 150 paesi in tutto il mondo. Si è trattato di un malware con una relativa richiesta di riscatto da pagare, ovviamente, in Bitcoin. Con un valore di mercato che si attesta oltre i 4,000 dollari non è difficile immaginare perché il regime sia così fortemente interessato a questa criptovaluta in particolare. Resta solo da vedere come si evolverà la situazione, sia per quanto riguarda l’ambito del mercato finanziario virtuale che quello riguardante l’attualità e il mondo “reale”.
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