Vi ricordate il caso della Blue Whale Challenge, inizialmente fatta circolare come un problema di scala globale e poi rivelatasi una semplice creepypasta condita da fatti inesistenti o scollegati? Bene, perché il fenomeno della cosiddetta Momo Challenge segue praticamente lo stesso filone. Se provate a cercarne notizia su Google con buona probabilità finirete su articoli o video di “inchiesta” dove si parla di Momo come di un’entità che sta terrorizzando molte persone. Ma anche in questo caso è necessario che diffidiate dagli allarmismi: vediamo di fare un po’ di chiarezza.
Innanzitutto, da dove nasce Momo? Tutto ha iniziato alla Vanilla Gallery, una galleria d’arte moderna a tema horror/grottesco che ha sede a Tokyo. Qua è stata installata tempo addietro la scultura chiamata Mother Bird, che vedete qua sopra. Creata da Keisuke Aiso, presidente della compagnia d’effetti speciali Link Factory, prende spunto da una delle molteplici leggende del folklore nipponico. Più specificatamente, la leggenda narra di Ubume, lo spirito di una madre che ha perso la vita durante il parto.
E come molte creepypasta in circolazione, anche questa nasce da una semplice foto, in questo caso il primo piano della scultura, fatta circolare in rete per il puro gusto di spaventare le persone più suscettibili. E non c’è voluto molto prima che qualcuno portasse il tutto ad un livello superiore, creando account ad hoc per importunare le persone online e creando un passaparola che è arrivato fino ad oggi.
L’unico caso di cronaca associato a questa pseudo-catena di Sant’Antonio è avvenuto nella regione di Tabasco, in Messico. Nel luglio del 2018 è stato fatto circolare un poster dalle autorità in cui si cercava di frenare il fenomeno Momo Challenge. L’intento dell’avviso non era quello di creare allarmismo, bensì mettere in guardia soprattutto i più piccoli dai malintenzionati che potrebbero celarsi dietro a tutto ciò.
Questo perché, come prevedibile, alcuni utenti hanno ben pensato di approfittare della storiella dell’orrore per importunare persone su WhatsApp e Facebook. Il tutto condito da messaggi in cui si minacciava la morte del destinatario (qualcuno ha detto The Ring?) ma che fondamentalmente è nient’altro che spam fine a sé stesso. Ma si sa, in casi come questi anche soltanto parlarne equivale a cercare di spegnere il fuoco con la benzina.
Detto questo, da dove parte la Momo Challenge? Il caso che più avrebbe messo in allarme l’opinione pubblica sarebbe legato al suicidio di una ragazza di 12 anni, vittima di abusi sessuali nella città di Ingeniero Maschwitz, in Argentina. Nel telefono della vittima sarebbero state trovate delle conversazioni su WhatsApp con l’aggressore, un ragazzo 18enne, e di mezzo – indovinate un po’? – ci sarebbe proprio la Momo Challenge. Usiamo il condizionale perché, leggendo l’articolo della notizia sui media argentini, si capisce come il collegamento alla Momo Challenge sia molto precario e forse piuttosto gratuito, forse legato alle dicerie diffuse in quel periodo in quella zona geografica.
Come avrete capito, le similitudini con la Blue Whale Challenge ci sono tutte. Una semplice creepypasta che prende ispirazione da una cosa reale (la scultura di Keisuke Aiso) ma che finisce per essere sfruttata per attirare click ed engagement. Ma tutto ciò ad un prezzo, ovvero la fragilità mentale di coloro che utilizzano la rete senza la necessaria malizia per saper discernere fra una notizia reale ed una senza fondamenti. È indubbiamente giusto sensibilizzare ad un utilizzo più sano di social ed internet in generale, ma farlo con allarmismi infondati non farà altro che creare una sfiducia non necessaria.
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