Google è stata citata in giudizio a gennaio del 2018 da un ex dipendente, con l’accusa di discriminazione razziale e di genere. Arne Wilberg, ex dipendente di YouTube sostiene, infatti, che il colosso americano ha discriminato maschi bianchi ed asiatici, in sede di assunzione, al fine di favorire candidati di sesso femminile, latini, ispanici e neri. La causa è stata accolta dal tribunale della California, stato nel quale la legge punisce coloro che si rifiutano di assumere personale a causa del genere o della razza.
Dal canto suo, Google nega qualsiasi tipo di discriminazione sostenendo, invece, che in sede di assunzione l’unica discriminante sia la capacità professionale delle persone. In altre parole, ciò che conta è il merito è non l’identità. Ad ogni modo, Wilberg ha fornito tutta una serie di prove costituite da e-mail ed altri documenti. La causa coinvolge anche altri 25 dipendenti addetti alle assunzioni che, secondo Wilberg, si sarebbero resi colpevoli di applicare tali pratiche discriminatorie.
I cicli di assunzioni pilotate, secondo l’accusa, sarebbero durati per diversi trimestri consecutivi. Il disagio palesato da Wilberg era, in realtà, comune all’interno del personale. Tanto che diversi dipendenti che si erano lamentati o che avevano tentato di opporsi, erano stati licenziati (come Wilberg), retrocessi o trasferiti. Particolare imbarazzo lo creava “Project Mirror“: questo prevedeva che i colloqui di lavoro venissero svolti da un dipendente della stessa razza e genere del candidato. In precedenza Google era finita nell’occhio del ciclone con l’accusa di facilitare, a causa della struttura aziendale, i casi di molestie sessuali e di discriminare le donne dal punto di vista del salario.
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